Prima esperienza pilota realizzata nell’anno scolastico 2019/2020 della Scuola di Reportage Goffrredo Parise coordinata da Maria Rosaria Nevola, ideatrice della scuola con Antonio Barzaghi, che ha visto come tutor del progetto Lisa Iotti, giornalista d’inchiesta del programma PresaDiretta di Rai 3 e con lei docenti: Eleonora Tundo giornalista della redazione Rai3 – PresaDiretta, Sebastiano Mancinelli montatore ed editor per il programma PiazzaPulita La7.
Hanno partecipato circa cinquanta ragazzi provenienti da quattro Scuole Secondarie di Treviso, che si sono cimentati su come ideare, sviluppare, costruire e finalizzare un reportage televisivo su una tematica di forte impatto sociale scelta tra una rosa di argomenti proposti dagli studenti stessi.
Dopo una prima lezione in presenza tenutasi a febbraio 2020 nel Complesso Museale di Santa Caterina, le successive lezioni si sono svolte online a causa della pandemia.
Sostenuta dalla Regione del Veneto, dalla Provincia di Treviso e dai Comuni di Treviso, Salgareda, e Ponte di Piave.
Premi:
Alla scuola vincitrice della I edizione è stata consegnato un diploma in pergamena, ad ogni studente un attestato di partecipazione.
Docenti e Istituti
- Liceo Artistico di Treviso
- Liceo Duca degli Abruzzi di Treviso
- Istituto A. Palladio di Treviso
- Istituto Riccati-Luzzati di Treviso
Programma
Nella prima lezione in presenza, Lisa Iotti ed Eleonora Tundo hanno fatto lavorare i ragazzi su più tematiche proprio dopo aver raccolto i loro input che spaziavano dalla difficoltà di comunicare con gli adulti, ai social network al bullismo fino a spaccati di vita quotidiana, la scuola, gli amici…hanno spiegato ai ragazzi come si organizza un’inchiesta giornalistica, come trovare e verificare le fonti, raccogliere il materiale trovato, come scrivere e montare il lavoro.
Le lezioni successive si sono svolte online a causa della Pandemia e i ragazzi sono stati spronati a non farsi spaventare dalle difficoltà ad utilizzare il tempo per scandagliare meglio le tematiche, a lavorare alle interviste a cercare di farle comunque via Skype o con QuickTime a trovare strade alternative.
Il lavoro con gli studenti è stato organizzato dalle docenti Lisa Iotti ed Eleonora Tundo in piccole lezioni per gruppi svolte online utilizzando le piattaforme Zoom o Skype. I ragazzi sono stati stimolati a raccontare ciò che stava accadendo, dando priorità alla testimonianza più che alla tecnica.
L’editing (dalle riprese al montaggio) coordinato da Sebastiano Mancinelli si è svolto per step prima delle videolezioni con cui i ragazzi hanno acquisito le basi per un premontaggio dei reportage, successivamente la supervisione dei docenti.
A marzo 2020 pochi giorni dopo la proclamazione da parte dell’OMS dello stato di Pandemia Lisa Iotti scrive una mail alle ragazze e ai ragazzi, l’Italia e il mondo intero sono sotto shock, come spiegare ai ragazzi perché è necessario non fermarsi?
Buongiorno Ragazzi, eccoci qui.
Prima cosa, come va? Spero stiate tutti bene, voi e le vostre famiglie.
Scusate se è un po’ di tempo che non ci sentiamo, ma sono state e sono settimane molto complicate: abbiamo dovuto tutti riorganizzare le nostre vite, ritrovare i nostri punti di riferimento, prendere le misure, ognuno a proprio modo. Quello che ci è successo è senza precedenti nella storia moderna, qualcosa che nessuno di noi era preparato ad affrontare, nel mondo, non solo in Italia. Siamo tutti sotto shock e capisco che in questo momento di fragilità, in cui non sappiamo che ne sarà di noi, quando potremo tornare ad avere una vita normale, possa sembrare assurda qualsiasi iniziativa che non sia limitarsi a stare fermi a aspettare che tutto questo finisca al più presto.
Nelle prossime righe invece cercherò di spiegarvi perché, al contrario, sono convinta che mai, come in questo momento così buio, siamo chiamati a non mollare nessuno dei nostri progetti, specie quelli più difficili, che ci sfidano e ci costringono a concentrare tutte le nostre capacità e le nostre energie, come raccontare storie e fatti sotto forma di reportage. Lo so che per voi è qualcosa di nuovo, e di complesso, ma proprio per questo non va abbandonato, perché in quel lavoro ci sarà il vostro cuore a battere e oggi è il cuore, che più di tutto, dobbiamo coltivare: sentirci vivi, uniti, non perdere la fiducia. E non è retorica, perché è vero che il nostro dovere ora è restare in casa, ma anche mantenere la luce negli occhi. Guai a spegnerla. Guai a lasciarci spegnere.
Ognuno di noi ora deve fare un piccolo miracolo. E credo che raccontare quello che ci sta travolgendo in questi mesi, cercare di tessere trame, a suo modo lo è: servirà a tenerci stretti, sarà il nostro antidoto, il nostro modo per resistere. Non solo sarà vitale perché ogni testimonianza un giorno diventerà memoria preziosa di quello che abbiamo vissuto, ma perché noi stessi alla fine di tutto questo ( finirà, prima o poi) saremo persone diverse. E come saremo, dipenderà da noi: da quanto avremo lasciato che il vuoto, la diffidenza, la paura, l’odio, ci abbiano sgretolato; o da quanto invece avremo coltivato il dubbio, l’attenzione per gli altri, l’amore per la verità, per la fratellanza. Saremo migliori nella misura in cui riusciremo a trasformare questo dramma collettivo in una rinascita personale, una forma di crescita che farà di noi creature più profonde, più responsabili, più riflessive.
Per questo è fondamentale ora impegnarci in un compito complesso, e farlo nel migliore dei modi, con disciplina, tenacia e dedizione, perché abbiamo un bisogno disperato di forza di volontà, di resilienza, di generosità e di senso della comunità, e tutto questo si rafforza nel vostro progetto di reportage, credetemi. Vi allego (e vi prego di leggerlo) un articolo del Corriere della Sera di qualche giorno fa dello scrittore Alessandro D’Avenia, che insegna al liceo e collabora col giornale. Prendetelo come una metafora, ma le metafore salvano il mondo: racconta la storia del pianista praghese Raphaël Sommer, finito quando era bambino in un campo di concentramento insieme alla madre Alice, pianista anche lei che riuscì a proteggerlo, a farlo sentire importante e a dargli fiducia in se stesso all’interno di quella prigione, una fiducia e una sicurezza che si porterà dentro tutta la vita. Quando la madre non lavorava come operaia nel campo di concentramento, improvvisava per i prigionieri dei meravigliosi concerti di pianoforte, suonando i “24 studi” di Chopin, quanto di più difficile possa affrontare un pianista. È interessante come avesse imparato quei pezzi nel pieno dell’orrore della guerra e delle persecuzioni razziali, prima di essere deportata col figlio nel campo di concentramento (il marito era stato ucciso): si era messa a esercitarsi otto ore al giorno proprio negli “Studi” (nessun musicista fino ad allora si era azzardato a eseguirli in un unico concerto) perché aveva ascoltato una voce interiore che le aveva detto di perfezionarsi nell’esecuzione di quegli spartiti, che sarebbero stati la sua salvezza.
Quell’esercizio quotidiano, apparentemente senza senso sotto i bombardamenti della guerra, erano invece diventati la sua forza perché i risultati ottenuti con la musica – come disse la pianista – rafforzarono il suo ottimismo. “Era il nostro nutrimento. E, infondendo gioia nelle nostre anime, ci preservò dall’odio, cancellando la paura e rammentandoci le cose belle dell’esistenza anche negli angoli bui di questo mondo». È quello che dobbiamo cercare di fare tutti ora, ascoltare la nostra voce interiore e, in mezzo all’inferno di questa pandemia che ci spaventa e ci rende così fragili, coltivare il nostro piccolo giardino dell’Eden; e aspettare che la vita ricominci. Ogni gesto conta: che sia aiutare un vicino anziano a fare la spesa, chiamare una persona sola che ha bisogno di ascolto, fare bene il nostro dovere a scuola, continuare a studiare, prepararci agli esami; raccontare con le immagini, i suoni e le parole quello che stiamo vivendo. Perché qualunque filo tesseremo sarà un modo per mantenere l’entusiasmo, per fare sì che il cuore continui a battere.
Lo so che alcuni di voi hanno perso ogni stimolo, ma io vi prego di provare a rendervi conto che questo virus da un lato ci lascia svuotati ma dall’altro estende le nostre potenzialità, tira fuori il meglio di noi, e sono sicura che voi stessi vi sorprenderete di quanta risorse insospettabili avete dentro. Avrete visto in queste settimane i programmi televisivi: i medici e gli infermieri coi telefoni hanno girato immagini eccezionali, in condizioni disperate; i giornalisti le hanno inviate a distanza in redazione dove sono state montate di remoto, collegandosi via skype e confrontandosi al di là di uno schermo con i montatori; noi tutti abbiamo fatto interviste con skype appoggiando telefoni sopra a pile di libri, usando Quick Time, facetime e qualunque altra diavoleria la tecnica ha inventato. Con suoni che a malapena si sentivano e immagini sfuocate che sembravano marmellate di colore ma che andavano benissimo, perché in questo momento non ci sono più canoni estetici, belle forme: quello che conta ora è documentare, esserci, registrare, ricordare. È un momento molto difficile, davanti a cui siamo attoniti; come sospesi in aria, e non so come sarà ritornare a terra perché è la prima volta che le nostre generazioni si confrontano con un’emergenza così enorme, in cui oltre alle morti che ci tolgono il fiato, si unisce il dramma di uomini e donne, medici, infermieri, personale sanitario, che stanno lottando per salvare delle vite, spesso mettendo a repentaglio la loro; con una crisi economica che fa paura e famiglie che rischiano di perdere il lavoro e non sapere come dare da mangiare ai loro figli. Vi dico questo non per mettervi angoscia, ma per dirvi che qualsiasi tema si affronterà in Italia come nel resto del mondo per un bel po’ di tempo non potrà prescindere da questa pandemia.
Avevate aderito al progetto di Reportage perché spinti dalla voglia di raccontare, adesso avete un mondo intero che aspetta le vostre parole e il vostro sguardo. Qualsiasi argomento avevate scelto, va bene. Nulla potrà non essere interessante e profondo ora, perché voi lo affronterete con altri occhi e con un’altra voce. Per questo vi invito con tutto il cuore a riprendere in mano le vostre proposte oppure, se volete, a cambiarle inserendo storie che riguardano il Covid 19; qualcuno lo stava già facendo, qualche altro gruppo può virare e decidere di farlo entrare: faremo un grande racconto corale che mostreremo a settembre, al Premio Parise, o in tv e sui giornali, e vi assicuro che sarà bellissimo.
E adesso entriamo nella parte operativa. Come vi dicevo, nulla potrà per ora non avere come punto di partenza il coronavirus. Non fosse altro perché ci costringe a lavorare in modalità diverse. Nelle nostre sessioni per singoli gruppi, che direi di riprendere al più presto con Eleonora (che ci legge in copia), cercheremo di capire come raccontare i temi facendo riferimento in qualche modo al virus. Il gruppo per esempio che si occupa di Hiv non potrà prescindere per esempio dal raccontare che, tra le alcune cure che si stanno ora tentando contro il sars Cov 2, in attesa di vaccino o di farmaco specifico, ci siano medicinali impiegati per l’Hiv. Il gruppo che voleva parlare dei negozi soppiantati dall’online potrà raccontare cosa sta succedendo ora con le serrande abbassate per decreto, la quarantena e la gente che acquista solo su Amazon o con consegne a domicilio: che fine faranno tutti i piccoli negozi, che aiuti hanno avuto, come sopravviveranno? Il gruppo che voleva lavorare sui social adesso ha intere autostrade per raccontare come è cambiata la nostra vita appesa a social e piattaforme: Skype, Zoom e altre forme di comunità virtuale. Cosa ci sta insegnando la lontananza dai nostri amici, poterli vedere solo al di là degli schermi? Come ci cambierà? Il gruppo che aveva iniziato a lavorare sul Covid 19 ha già raccolto del materiale, l’impossibilità di parlare con le persone, la difficoltà di avvicinare la gente; la paura del contatto. Cerchiamo insieme un punto di vista su cui costruire una riflessione. Col gruppo che lavorava sulla caserma dobbiamo fare dei ragionamenti: lo spazio è stato utilizzato per altri fini in questo periodo? È uno spazio che avrebbe potuto essere utilizzato in altri modi? Non so, studiamo.
Naturalmente, non tutto il tema sarà risucchiato dal virus, sarà solo per avere il nostro punto di vista che – ripeto – oggi è imprescindibile. Ci dà una prospettiva, ma poi tutta l’indagine che avevate messo in campo continua come e più di prima…
…Voglio terminare ricordandovi che la creatività, la scrittura, il reportage, il racconto, il teatro non si sono mai fermati nei momenti bui della storia, anzi. E sono stati gli studenti spesso a fare miracoli, magari un po’ più grandi di voi.
Durante l’assedio di Sarajevo (non eravate nati, ma io facevo l’università, quindi non era mille anni fa), uno dei più grandi drammaturghi del Paese, Dzevad Karahasan, fece teatro coi suoi ragazzi all’interno dell’università in condizioni estreme, mentre cadevano le bombe, scavando tunnel per raggiungere le aule, organizzandosi per non perdere nemmeno una lezione.
“Vi prego di lavorare quanto e meglio potete, dicevo agli studenti. Il vostro lavoro è l’unica cosa che può liberarvi almeno per un attimo dalla paura, aiutandovi a conservare la dignità umana, sensibilità e ragione… Una delle funzioni essenziali dell’arte è difendere gli uomini dall’indifferenza, e l’uomo rimane vivo fino a quando non diventa indifferente… Lavoravano meglio di quanto avessero mai fatto in tempo di pace- in meno di due mesi hanno prodotto quattro spettacoli che sono stati rappresentati in tutta la città. Senza illuminazione elettrica, senza un palcoscenico diviso dal pubblico, senza le quinte che si sarebbero dovute trasportare. Letteralmente senza niente, eccetto attori che desideravano recitare, e spettatori che desideravano il teatro come elemento importante di una vita normale”.
In bocca al lupo ragazzi, cerchiamo di andare avanti e di portare a termine questo progetto “non nonostante”, “ma grazie” a quello che ci sta capitando. Faremo qualcosa di diverso da come avevamo immaginato, ma sono certa che il risultato sarà ancora più forte. E un giorno ringrazierete voi stessi per non averlo mollato.
Vi abbraccio, con tutto il cuore.
“Ciò che conta è, in due parole, la forza di amare”.
Goffredo Parise
Lisa Iotti, marzo 2020
Vincitori
La Commissione giudicatrice ha esaminato i reportage realizzati durante il percorso formativo presso la Scuola di Reportage Goffredo Parise anno scolastico 2019-20 e ha assegnato i Riconoscimenti Scuola di Reportage Goffredo Parise I edizione agli Studenti del “Liceo Duca Degli Abruzzi” per il reportage “Sorry we are closed”.
- Sara Artoni
- Ilenia Caputo
- Beatrice Conte
- Ylenia Niceforo
- Emma Pavan
- Francesca Vio Genova
Reportage
- Liceo “Duca Degli Abruzzi” di Treviso
“Sorry We Are Closed”
Le immagini di Venezia deserta dopo il lockdown hanno fatto il giro del mondo. Una città, che era il simbolo del turismo made in Italy – anzi, dell’overtourism, con i suoi 25 milioni di visitatori l’anno, che all’improvviso si è trovata una città fantasma. È stato uno shock per il turismo, per il commercio che era già stato fortemen- te penalizzato negli anni e per l’economia in generale. In Italia, come dovunque. Ma non tutti escono sconfitti da questa pandemia: mentre 4 milioni di posti di lavoro andavano in fumo in questi mesi, Amazon era alla ricerca di centinaia di migliaia di lavoratori per i suoi magazzini. L’E-commerce, grazie al Covid, in questi mesi è schizzato e continuerà a crescere nei prossimi tempi. Ma la rete può essere anche usata per fare rete, e per unirsi gli uni con gli altri.
Sara Artoni, Ilenia Caputo, Beatrice Conte, Ylenia Niceforo, Emma Pavan, Francesca Vio Genova.
- Liceo “Duca Degli Abruzzi” di Treviso
“Shockdown
La chiamano pandemia psicologica e nel mondo inizia a diffondersi sempre di più. Negli Stati Uniti quasi metà della popolazione dichiara che la crisi del coronavirus ha danneggiato la sua salute mentale e si annuncia l’arrivo di un’ondata di problemi mentali senza prece- denti. E in Italia? Sono aumentati gli stati di ansia, le depressioni e i tentativi di suicidio. L’impressione, dicono gli esperti, è che il peggio debba ancora arrivare. Il Covid 19 è un trauma collettivo ingovernabile “che ci fa sentire deboli, ci getta nello sconforto e nell’inermità”, come spiega lo psicanalista Massimo Recalcati. Ma il virus è stato anche il più grande esperimento psicologico mondiale, da cui potranno uscire nuove invenzioni e nuove idee.
Samuele Criscuolo, Benedetta Dal Colle, Isabella Di Maio, Beatrice Girotto, Emanuele Stulfa.
- Istituto “A. Palladio” di Treviso
“HIV ai tempi del Covid”
Prima che Sars-Cov-2 entrasse violentemente nelle nostre vite, è stato l’HIV a causare milioni di morti nel mondo. Un virus che ha segnato uno spartiacque nella storia dell’umanità. Cosa potrebbe accadere se anche l’ultimo coronavirus non sparisse più e diventasse endemico come l’HIV, se indossare una mascherina, avere a che fare con pareti di plexiglass, non avvicinarsi più gli uni agli altri diventasse la nuova normalità? Il virus dell’immunodeficienza umana per decenni dalla sua comparsa è stato sinonimo di condanna a morte. Oggi, grazie alle cure con gli antiretrovirali, di Aids non si muore più. L’aspettativa di vita di un sieropositivo è la stessa di una persona sana. Ma cosa significa convivere per sempre con un virus?
Michele Gagno, Elena Longo, Niccolò Pisolati, Miriana Risato.
- Istituto “Riccati-Luzzatti” di Treviso
“Diari dalla Quarantena”
Il lockdown è stato un tempo dilatato in cui i giorni si sono trascinati tra noia, nostalgia degli amici, rimpianti delle piccole abitudini, tentativi faticosi di conservare un’idea di normalità. Non solo però. Per chi ha saputo accogliere il vuoto che si è spalancato nelle nostre vite, i giorni forzati dell’ isolamento sono stati anche un’opportunità di pensiero e di attenzione, che ci ha permesso di guardarci dentro e tornare a dare valore alle cose: i momenti con la famiglia, le parole dei libri, gli abbracci, di cui abbiamo scoperto non potere fare a meno. Esistenze che si fermano, esistenze che ripartono, raccontate con autenticità e delicatezza dalla voce viva dei ragazzi.
Ahlem Boukhrouf, Samantha Cuccato, Alessia Mitri, Stella Pashennedige, Elena Trevisan, Giulia Zuccotti.
- Liceo Artistico di Treviso
“Mani Parlanti”
Artigianalità, accoglienza, inclusione, sostenibilità sono gli ingredienti principali di Talking Hands (Mani parlanti), un laboratorio permanente di design e moda che dal 2016 negli spazi dell’ex Caserma Piave di Treviso coinvolge i rifugiati e i richiedenti asilo. Le mani parlanti di Seiba, Lamin, Yankuba e i tanti migranti ospiti dei centri di accoglienza della città che hanno imparato a lavorare i tessuti, non producono solo collezioni bellissime che finiscono nelle riviste di moda di tutto il mondo, ma raccontano soprattutto sogni, viaggi, vite, talenti. Mani che disegnano un futuro possibile.
Ines Bortoletto, Adele Cavallin, Marika Cosenza, Mikal Fol, Alessandro Trevisin
Commissione giudicatrice Scuola di Reportage:
- Lisa Iotti – giornalista d’inchiesta della redazione di Presa Diretta Rai 3
- Eleonora Tundo – giornalista di Presa Diretta Rai 3
- Sebastiano Mancinelli – montatore editor di Piazza Pulita La 7